martedì 27 febbraio 2018

L'altra madre - Andrej Longo

"Lo vedi l'orizzonte?" ha detto una volta un amico mio. E mentre lo diceva ha indicato con la mano l'azzurro del mare che si sbagliava lontano mischiandosi al cielo.
"Lo vedo, e allora?".
"E allora, a guardarlo da qua, pare che là in fondo ci sta la fine di ogni cosa. Però poi, quando ci arrivi, ti accorgi che non era la fine, ma solo l'inizio di un altro orizzonte".
"E vabbuò," ho detto io "ma questo è un fatto che lo sanno tutti".
"Sissignore, 'o ssanno tutti, ma poi nisciuno s' 'o ricorda".

Da una parte c’è Genny. Ha sedici anni ed è un ragazzo con la testa a posto; lavora come cameriere in una Napoli dei quartieri più poveri, aspettando il momento di tornare a casa da mamma, che passa la giornata a cucire orli ai pantaloni per un tozzo di pane, e che sopravvive con i tarocchi e la bombola d'ossigeno.

Dall'altra parte c'è invece, almeno all'inizio, Tania, una quindicenne studiosa che ha una madre non ingombrante nonostante il suo lavoro. Perché sì, Irene fa la poliziotta.
E il protagonista di tutta la vicenda è proprio il suo destino, avverso. Durante un turno di lavoro Irene scopre che a seguito di uno scippo finito male di due balordi in motorino, la sua bambina è rimasta uccisa.

Come si legano, allora, i poli opposti del filo che attraversa Napoli?
Il punto di incontro è che quel motorino lo guidava Genny.

E’ una vendetta più che una giustizia quella che Irene rincorre e tenta di afferrare per tutto il romanzo. Una nemesi privata, autonoma, fatta di manipolazione e sequestro, costruita attorno a tutto ciò che un membro delle forze dell'ordine e in primis una madre, non dovrebbero mai fare.

Eppure.
Eppure la rabbia di Irene è troppo forte. Oscura la sua vista. Oscura il suo sentimento materno. E la pietà sembra non debba arrivare mai.
Eppure...

Andrej Longo nel suo romanzo "L'altra madre" narra Napoli, quella bella e quella sporca, quella pietosa sentimentale a braccetto a quella camorrista. Andrej Longo racconta di quella umanità potente e vera ed empatica e penitente. E ne crea una sceneggiatura perfetta.

martedì 20 febbraio 2018

A misura d'uomo - Roberto Camurri

Un quadro fatto di racconti incastrati tra di loro senza seguire un filo cronologico ma l’innocenza data dalla freschezza delle storie che Roberto va a narrare. Ecco cos'è “A misura d’uomo”, romanzo di esordio di Roberto Camurri (NNEditore).

La cornice, poi, è costruita sulle vite di Davide e Valerio. 
E Anela. Perché una donna che ingarbuglia, per me, ci deve sempre essere.
Questo triangolo, fatto anche dall'assenza in realtà di uno dei vertici, getta le fondamenta per narrare poi le storie di tutti gli altri personaggi del romanzo di frontiera italiano.

Sì, romanzo di frontiera. Perché “A misura d’uomo” è ambientato a Fabbrico, il paese di Roberto, che ama e odia incondizionatamente.
E chi ama davvero quel “Tecsas” di Fabbrico, se lo tatua anche sulla pelle, come Roberto. O nel dna, come Davide, Valerio e Anela.

È un romanzo, questo, avulso da qualsiasi tipo di giudizio; chi racconta le storie di Elena, Mario, ma anche di Bice la barista e del vecchio partigiano Giuseppe, tenta in qualche modo di dare uno sguardo esterno alle vicende, come una divinità che impone le mani e guida i suoi burattini.
Tutti i personaggi di Roberto vivono entrambe le facce della classica medaglia, insieme, contemporaneamente; e forse è proprio in questo che sta la loro umanità. 
Sappiamo tante cose di loro, ma mai abbastanza. Sappiamo per esempio che Davide e Valerio si conoscono da quando sono bambini e che solo in età adulta la loro vita viene scombussolata dall'arrivo di Anela.
Ma non sappiamo nient’altro.
Non sappiamo per esempio che lavoro faccia Anela, oppure non sappiamo come si lava Giuseppe se non va a trovarlo nessuno.
Ma non importa.
“A misura d’uomo” è un romanzo fatto anche di questo. Di vuoti incolmabili ma assordanti, che non abbiamo bisogno di riempire, perché parlano da soli. Come si diceva sabato durante l’incontro con l’autore alla libreria Le notti bianche di Vigevano.
E poi ci sono le emozioni.

“Ludovica si sta lavando i denti, lui resta fermo a guardarla, seduto sul water, è un rito abituale tra loro, uno spazio per dirsi le cose, un modo di stare insieme da quando lei è alle superiori, da quando ha iniziato a diventare autonoma, da quando si vedono sempre meno.”

E Roberto le descrive in maniera esaustiva e densa e vitale. Perché così sono.
Perché così sono le vite che si intrecciano e si scontrano e si incontrano in quel di Fabbrico.
Questo quadro è decisamente un’opera d’arte da conoscere e da assaporare, da guardare nei minimi dettagli. Da leggere dall'inizio alla fine.

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