giovedì 29 agosto 2013

La gang dei sogni - Luca Di Fulvio

La gang dei sogni, Luca Di Fulvio. 2008, Mondadori. 571 pagine.

La storia editoriale di Luca Di Fulvio è singolare. Autore acclamato all’estero, soprattutto in Germania dove ogni suo libro è un bestseller garantito, Di Fulvio è poco conosciuto in Italia e non se ne capisce il motivo. Lo scrittore romano ha qualcosa da invidiare ai vari Massimo Gramellini, Marcello Simoni o Giorgio Faletti, recenti campioni d’incasso nostrani? No, anzi. Luca Di Fulvio, a mio modesto parere, ha una marcia in più tra quelli citati.

La gang dei sogni
è un romanzo del 2008 ed è ambientato negli Stati Uniti agli inizi del XX secolo e negli Anni Venti, a New York e a Los Angeles. Nel 1909 sbarca a Ellis Island un transatlantico proveniente dall’Italia e con esso una giovane donna di nome Cetta Luminita e il suo bambino, Natale. Il piccolo viene però subito chiamato, dagli addetti dell'immigrazione, Christmas. La giovane Cetta affronta con coraggio le difficoltà della vita nel ghetto italiano del Lower East Side di New York con un solo desiderio: che il suo bambino diventi un vero americano, libero di poter scegliersi una vita. Ma nella New York dei primi del Novecento a dettare legge sono i gangster. Christmas s’inventa una banda: i Diamond Dogs. Una gang immaginaria perché oltre a lui ne fa parte solo l’amico Santo. Ma Christmas ha un dono speciale: una fantasia vivissima e riesce a rendere vere cose e fatti mai accaduti attraverso storie che fanno sognare chiunque lo ascolti. Riuscirà così ad ammaliare un’intera città fondando anche una radio clandestina e ottenendo il successo che merita. Ma La gang dei sogni non è solo questo: è anche una storia d’amore, di violenza, di sofferenza e di riscatto. Christmas soccorre una ragazza vittima di una violenza sessuale e se ne innamora. Ma è un amore quasi impossibile: lei è bella, ricca, ebrea, ma soprattutto segnata fisicamente e psicologicamente dalla violenza subita. Viene portata dai genitori a Los Angeles mentre lui, ragazzo di strada, povero, resta a New York. Il violentatore si chiama Bill e seguiremo anche la sua storia che lo porterà a fuggire a Hollywood.

La gang dei sogni è un film. Sì, un film. Perché è quella la sensazione che si prova durante la lettura e a fine libro. Uno splendido film sugli Anni Venti americani. L’atmosfera di quel periodo è resa al meglio, sembra di sentirne gli odori e pare di leggere un romanzo di Francis Scott Fitzgerald a livello di ambientazione. Di Fulvio costruisce la prima parte del romanzo con flashback continui che raccontano la vita a New York di Cetta intorno al 1910 e quella di Christmas adolescente e poi uomo dal 1922 al 1929. La seconda parte invece prosegue seguendo le vicende del ragazzo in ordine cronologico. Con cambi di set tra New York e Hollywood. La vicenda è narrata in terza persona al passato. I punti di vista sono molti e Di Fulvio salta da un punto di vista all’altro, spesso senza staccare il periodo nella pagina del libro, e racconta i pensieri di tutti. Nonostante questo il lettore non perde mai il filo, capisce immediatamente chi pensa cosa e la storia corre che è un piacere. Come un film, appunto.


Concludendo, Di Fulvio è stata una scoperta illuminante e considero già questo scrittore tra i migliori nel panorama italico. Almeno per quanto riguarda questo romanzo che consiglio caldamente a tutti.
La gang dei sogni è avventura, è un romanzo di formazione, di sofferenze, di soprusi e di rivincite. Ma è anche un grande romanzo d’amore. Non mi vergogno a dire di essermi commosso a fine lettura.

Consigliato
a: tutti. I lettori spesso si lamentano di non trovare uno scrittore italiano all’altezza, forse scottati da letture precedenti. Eppure di bravi autori nostrani ce ne sono e Di Fulvio va inserito di diritto in questa rosa. Il romanzo è lungo ma una pagina tira l'altra.

Citazione
: “Ma i loro occhi erano allacciati. E in quegli sguardi velati dalle lacrime ci furono più parole di quante avrebbero potuto dire, più verità di quante avrebbero potuto ammettere, più amore di quanto avrebbero potuto mostrare. E c’era più dolore di quanto fossero capaci di sopportare.”

martedì 20 agosto 2013

Se sembra scritto, riscrivilo

Scompare oggi Elmore Leonard, grande scrittore e sceneggiatore americano. Aveva 87 anni.

Tra i film tratti da sue opere oppure da lui sceneggiati o prodotti ricordiamo Quel treno per Yuma, Hombre, Get Shorty, Out of Sight, Jackie Brown, Be Cool. I suoi libri, più di 45, sono popolati di truffatori, bari e killer improbabili, sempre descritti con uno stile semplice e diretto in cui la parte del leone la fanno i dialoghi. Quei dialoghi di cui Leonard era maestro indiscusso.

In questo triste giorno, pubblichiamo le 10 regole di Leonard per scrivere della decente narrativa.

1. Mai iniziare un libro parlando del tempo. Se è solo per creare atmosfera, e non una reazione del personaggio alle condizioni climatiche, non andrai molto lontano. Il lettore è pronto a saltare le pagine per cercare le persone. Alcune eccezioni. Se ti capita di essere Barry Lopez, che conosce più modi di un eschimese per descrivere il ghiaccio e la neve nel suo Sogni Artici, puoi fare tutti i bollettini meteo che vuoi.

2. Evita i prologhi: possono irritare, soprattutto quelli che seguono un’introduzione che viene dopo una prefazione. Queste sono cose che di solito si trovano nella saggistica. In un romanzo, un prologo è un antefatto, e puoi metterlo dove ti pare. C’è un prologo in Quel fantastico giovedì di Steinbeck, ma va bene perché lì c’è un personaggio che centra esattamente ciò di cui parlo in queste regole. Dice: “Mi piacciono i dialoghi in un libro, e non mi piace che nessuno mi dica com’è il tizio che parla. Voglio immaginarmelo dal modo in cui parla”.

3. Nei dialoghi non usare altri verbi tranne “disse”. La battuta appartiene al personaggio; il verbo è lo scrittore che ficca il naso. Almeno, “disse” non è invadente quanto “borbottò”, “ansimò”, “ammonì”, “mentì”. Una volta notai che Mary McCarthy aveva chiuso una battuta con “asserì” e dovetti smettere di leggere e prendere un dizionario.

4. Non usare un avverbio per modificare  il “disse”… ammonì gravemente. Usarlo in questo modo (o in qualsiasi altro modo) è un peccato mortale. Così lo scrittore si espone troppo, usando una parola che distrae e che può interrompere il ritmo dello scambio. In uno dei miei libri si raccontava di un personaggio che era solito scrivere storie d’amore d’ambientazione storica “piene di stupri e avverbi”.

5. Tieni i punti esclamativi sotto controllo. Ti è permesso di usarne non più di due o tre ogni 100.000 parole.  Se poi sei incline a giocare con i punti esclamativi come Tom Wolfe, puoi aggiungerne a manciate.

6. Non usare mai “improvvisamente” o “s’è scatenato l’inferno”. Questa regola non richiede una spiegazione. Ho notato che gli scrittori che usano “improvvisamente” tendono ad avere meno controllo nell’uso dei punti esclamativi.

7. Usa dialetti e slang con moderazione. Una volta che cominci a compitare foneticamente le parole nei dialoghi e a riempire le pagine di apostrofi, non sarai più in grado di fermarti. Nota come Annie Proulx cattura il sapore delle sonorità del Wyoming nella sua raccolta di racconti Distanza ravvicinata.

8. Evita descrizioni dettagliate dei personaggi, come faceva Steinbeck. In Colline come elefanti bianchi di Ernest Hemingway come sono “l’Americano e la ragazza che era con lui”? “Si era tolta il cappello e lo aveva messo sul tavolo”. Nel racconto, questo è l’unico riferimento a una descrizione fisica.

9. Non dare troppi dettagli descrivendo posti e cose, a meno che tu non sia Margaret Atwood e sia in grado di dipingere con le parole. Non vuoi descrizioni che portino l’azione – il flusso della storia – a un punto morto.

10. Cerca di omettere le parti che i lettori tendono a saltare. Pensa a cosa salteresti leggendo un racconto: fitti paragrafi che trovi abbiano troppe parole.

La mia regola più importante è quella che ricapitola la 10: se sembra scritto, riscrivilo.

lunedì 5 agosto 2013

La pietra del cielo - Jack Whyte

La pietra del cielo, Jack Whyte. 1996, Piemme. 538 pagine

Tempo fa alla mia domanda: «Conosci un romanzo che narra di battaglie e tattiche di guerra antiche?», una mia carissima amica rispose: «Leggi La stirpe dell’aquila di Jack Whyte.» Naturalmente sono corso a informarmi in Rete sul testo in questione scoprendo che esso faceva parte di una saga denominata “Le cronache di Camelot”. Non potevo iniziare dal libro consigliato dall’amica, essendo quello il terzo della saga, cronologicamente parlando. E allora ho comprato e letto il primo, La pietra del cielo, che è il romanzo che recensisco oggi, aggiungendo che mi è piaciuto talmente tanto che continuerò la lettura dell’opera di Whyte.

La pietra del cielo
è un romanzo storico, più precisamente un romanzo di finzione storica. Vale a dire che alcuni personaggi e fatti sono realmente esistiti e accaduti, altri no e sono frutto della fantasia dell’autore. Publio Varro e Gaio Britannico, i due protagonisti principali, sono personaggi immaginari ma che si muovono all’interno di eventi storici assolutamente reali. La pietra del cielo è narrato da Publio Varro che, ormai anziano, ricorda la sua vita. Legionario romano prima in Africa e poi in Britannia, viene ferito in un terribile scontro e decide di ritirarsi dalla vita militare e seguire le orme del nonno facendo il fabbro. Il nonno riuscì a forgiare una spada da un metallo contenuto in pietre cadute dal cielo, meteoriti. E Varro, incitato dal generale e amico di sempre Gaio Britannico, decide di cercare altre di queste pietre. Tra alterne vicende, battaglie, incidenti e fughe, Varro troverà quello che cerca quando andrà a vivere con Luceia, la sorella di Gaio, in una Colonia nel sudovest della Britannia.

Quello che Jack Whyte fa è interpretare, dandogli una parvenza storica reale, il ciclo arturiano. La Colonia che fondano Varro e Gaio sarà quindi Camelot e le misteriose pietre del cielo contribuiranno a forgiare la mitica spada Excalibur (in questo romanzo non avviene, ma così sarà. E non faccio spoiler visto che la quarta di copertina dell’edizione Piemme lo scrive chiaramente). Ho trovato il lavoro di Whyte enorme e affascinante e il suo stile è scorrevole, pulito e coinvolgente nella sua semplicità. Dietro La pietra del cielo c’è un immenso impegno di ricerca storica e l’autore scozzese ci descrive nei minimi dettagli usi e costumi dei romani del IV secondo d.c. Gli appassionati di storia avranno pane per i loro denti mentre chi ignorava molte cose sarà felice di apprenderle attraverso questo romanzo avventuroso e davvero avvincente. La figura di Publio Varro è tratteggiata talmente bene che alla fine del romanzo per noi diventa storicamente esistita. E’ vero, con tutte le debolezze che ha un uomo; fa errori come tutti, ma sa anche riscattarsi. Il burbero Gaio Britannico non è da meno  così come l’affascinante Luceia. E il cattivo, Seneca, be’, è talmente malvagio che la sete di vendetta non potrà che sorgere in voi.

Come avrete capito, La pietra del cielo mi è piaciuto non poco e cercherò di leggere l’intera saga che, per la cronaca, è composta da otto libri: La pietra del cielo, La spada che canta, La stirpe dell’aquila, Il sogno di Merlino, Il forte sul fiume, Il segno di Excalibur, Le porte di Camelot e La donna di Avalon.

Consigliato a
: non tanto a chi ama il ciclo arturiano, ma a chi ama le belle ricostruzioni storiche e soprattutto il periodo romano del IV secolo d.c. Whyte sarà il miglior professore di storia che abbiate mai avuto perché saprà anche entusiasmarvi.

Citazione
: “Invecchiando capisco che la vita è come una campagna militare: lunghi periodi di quiete e di noia in cui sembra che non accada niente e poi brevi, intensi spasimi, durante i quali tutto ciò che è importante si comprime in azione caotica.”

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